«C’è che noi nella storia siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? Uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noia liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi»

(Italo Calvino-Il sentiero dei nidi di ragno)

sabato 24 maggio 2014

ANDATO AL COMANDO


Andato al comando fa parte della raccolta di racconti di Ultimo viene il corvo (p. 57). In esso è raccontata la fucilazione di una spia da parte di un partigiano.  I due personaggi vengono chiamati solo "l'armato" e "il disarmato". A emergere sono soprattutto i pensieri di quest'ultimo. Calvino rivolge così la sua attenzione ora alla situazione umana del soldato fascista, ora allo stato d'animo del partigiano che assolve, senza alcun compiacimento, a un compito imposto dalla dura logica della guerra. 



Il bosco era rado, quasi distrutto dagli incendi, grigio nei tronchi bruciati, rossiccio negli aghi secchi dei pini. L’uomo armato e l’uomo senz’armi se ne venivano a zig-zag tra gli alberi, scendendo.
-Al comando, - diceva quello armato. - Al comando, andiamo. Mezz’ora di cammino a dir tanto.
- E poi? -
- Poi cosa? -
- Dico se poi mi lasciano andare, - fece l’uomo disarmato; a ogni risposta si metteva in ascolto, sillaba per sillaba, come cercasse una nota falsa.
- Certo che vi lasciano andare, - disse l’armato.
- Io do il documento del battaglione, loro segnano sul registro e allora potete tornare a casa.
Il disarmato scuoteva il capo, faceva il pessimista. - Eh, son cose lunghe, capisco... - diceva,forse solo per sentirsi ripetere:
- Vi lasceranno subito, vi dico. -
- Facevo conto, - aggiunse, - facevo conto d’essere a casa per stasera. Pazienza.
- Io dico che ci arriverete, - rispose l’armato.
- Il tempo che loro facciano il verbale, poi vi lasciano. Bisogna bene che cancellino il vostro nome dal registro delle spie.
- Avete il registro delle spie?
- Sicuro che l’abbiamo. Tutti quelli che fanno la spia, noi lo sappiamo. E uno per uno li prendiamo.
- E c’è il mio nome segnato sopra?
- Già. C’era anche il vostro nome. Ora bisogna bene che lo cancellino, se no rischiate d’esser preso di nuovo.
- Allora bisogna proprio che vada io là, che spieghi a loro tutta la storia.
- Ecco che stiamo andando. Bisogna bene che vedano, che controllino.
- Ma ormai, - disse l’uomo senz’armi, - ormai lo sapete che sono dei vostri, che non ho mai fatto la spia.
- Appunto. Ormai lo sappiamo. Ormai siete tranquillo. 
 
Il disarmato annuiva e si guardava intorno. Erano in una grande radura, con pini e larici magri, uccisi dagli incendi, ingombra dirami caduti. Avevano abbandonato, ritrovato e riperso il sentiero, andavano come a caso per i pini radi, traversando
il bosco. Il disarmato non riconosceva i luoghi, la sera saliva con lame sottili di nebbia, in basso il bosco s’infoltiva dentro il buio.
L’allontanarsi dal sentiero lo faceva inquieto; provò - visto che l’altro sembrava camminasse a caso - provò a piegare verso destra, dove forse il sentiero proseguiva: l’altro piegò anche lui a destra, come a caso. Se lui si rimetteva a seguirlo, riprendeva a sinistra o a destra, secondo com’era più agevole il cammino.
Si decise a domandare:
- Ma dov’è il comando?
- Ci andiamo, - rispose l’armato. - Ora lo vedrete.
- Ma in che luogo, in che regione, pressappoco?
- Come si fa a dire? - rispose.
- Il comando non si dice che è in un luogo, in una regione. Il comando è dov’è il comando. Voi capite.
Capiva; era un uomo che capiva le cose, il disarmato. Pure chiese: - Ma non c’è una strada, per andarci? L’altro rispose: - Una strada. Voi capite. Una strada va sempre in qualche luogo. Al comando non si va per le strade. Voi capite.
Il disarmato capiva, era un uomo che capiva le cose, un uomo astuto.

Chiese: - Voi ci andate spesso al comando?
- Spesso, - disse l’armato. - Spesso, ci vado.
Aveva una faccia triste, senza sguardo. Conosceva poco i luoghi: sembrava, ogni tanto, che si fosse smarrito, e pure continuava a camminare come non gli importasse.
- É perché siete di turno per la corvé, quest’oggi, che v’hanno mandato a accompagnarmi?- chiese il disarmato, studiandolo.
- É un lavoro che spetta a me, l’accompagnarvi, - rispose - Accompagno io la gente al comando.
- La staffetta, siete?
- Ecco, - disse l’armato, - la staffetta.
«Una strana staffetta, - pensava il disarmato, - che non conosce i luoghi. Ma, - pensava, -oggi non vuole passare per le strade perché io non capisca dov’è il comando, perché non si fidano di me». Brutto segno, che non si fidassero ancora di lui; il disarmato s’ostinava a pensare questo. Ma c’era, in questo brutto segno, una sicurezza, che davvero lo stessero conducendo al comando e volessero lasciarlo libero, e al di fuori di questo brutto segno un segno più brutto ancora, c’era il bosco che si faceva più fitto e da cui non s’accennava a uscire, c’era il silenzio, la tristezza di quell’uomo armato.
- Il segretario l’avete pure accompagnato al comando? E i fratelli del mulino? E la maestra? - Fece questa domanda d’un fiato, senza rifletterci, perché era la domanda decisiva, che significava tutto: il segretario comunale, i fratelli, la maestra, erano tutta gente portata via, mai più tornata, di cui mai più nulla s’era saputo.
- Il segretario era un fascista, - disse l’armato, - i fratelli erano nella milizia, la maestra era nelle ausiliarie.
- Dicevo così per sapere, visto che non sono tornati più indietro.
- Dico, - insisté l’armato. - Loro erano quello che erano. Voi siete quello che siete. Non c’è da far confronti.
- Certo, - fece l’altro, - non c’è da far confronti. Solo chiedevo cosa ne è stato, così, per curiosità.
Si sentiva sicuro di sé, il disarmato, enormemente sicuro di sé. Era l’uomo più astuto del paese, era difficile fargliela. Gli altri, segretario e maestra, non erano più tornati: lui sarebbe tornato. 
«Io grande kamarad, - avrebbe detto al maresciallo. Partisan niente kaputt me. Io kaputt tutti partisan».
Forse il maresciallo si sarebbe messo a ridere. Ma il bosco bruciato era interminabile e i pensieri dell’uomo erano fasciati di sconosciuto e di oscuro, come zone di radura in mezzo a un bosco.
- Io non so bene del segretario, di tutti quegli altri. Faccio la staffetta io.
- Ma al comando lo sapranno, - insisteva il disarmato.
- Ecco. Lo domanderete al comando. Là lo sanno.
Si faceva sera. Bisognava camminare guardingo, in mezzo alla brughiera, badando come metteva i passi, per non scivolare su sassi nascosti sottoi cespugli fitti. E badare come si mettevano i pensieri, uno dietro l’altro, nel fitto dell’inquietudine, per non trovarsi a un tratto sepolto di paura. Certo, se lo avessero creduto una spia non l’avrebbero lasciato
così nel bosco, solo con quell’uomo che sembrava non gli badasse nemmeno;
avrebbe potuto scappargli tutte le volte che avesse voluto. Se lui tentava di fuggire, cosa avrebbe fatto, l’altro? Il disarmato cominciò, scendendo in mezzo agli alberi, a prendere un po’ di distanza, a piegare a destra quando quello piegava a sinistra. Ma l’armato continuava a camminare quasi senza badargli, e scendevano così per il bosco rado, distanti ormai l’uno dall’altro. Talora anche si perdevano di vista, nascosti da tronchi, da cespi di arbusti, ma a tratti il disarmato tornava a vedere l’altro sopra di lui che sembrava non gli badasse e pure gli teneva sempre dietro, a distanza.
«Se mi lasciano libero un momento, è la volta che non mi pigliano più», aveva pensato fin allora il disarmato. Ma ora si sorprese a pensare: «Se faccio tanto da riuscire a scappargli, è la volta...» E già vedeva nella sua mente i tedeschi, tedeschi a colonne, tedeschi su camion e autoblinde, visione di morte per gli altri, di sicurezza per lui, uomo astuto, uomo a cui nessuno poteva farla. Erano usciti dalle radure e dalle brughiere, erano entrati nel bosco fitto e verde, risparmiato dagli incendi: il suolo era coperto d’aghi secchi di pino.
L’uomo armato era rimasto indietro, forse aveva preso un altro cammino.
Il disarmato allora, cauto, con la lingua tra i denti,affrettò il passo, si spinse più nel folto, cacciandosi giù per i dirupi, tra i pini. Stava scappando: se ne accorse. Allora ebbe paura; ma comprese che ormai s’era allontanato troppo, che l’altro s’era certo accorto del suo
voler scappare e certo lo stava inseguendo: non c’era che continuare a correre, guai se ricascava a tiro dell’altro, adesso che aveva tentato di fuggire. Si voltò a un calpestio sopra di sé: a pochi metri c’era l’uomo armato che se ne veniva col suo passo calmo,indifferente. Aveva l’arma in mano. Disse - Di qua ci dev’essere una scorciatoia, - e gli fece cenno di precederlo. Allora tutto tornò come prima: un mondo ambiguo, tutto in male o tutto in bene: il bosco che invece di finire, s’infittiva, quell’uomo che quasi lo lasciava scappare senza dir niente. Chiese: - Ma non finisce mai, questo bosco? - Appena girata la collina ci siamo, - disse l’altro. - Coraggio, che stanotte siete a casa.
- Così, senz’altro mi lasceranno andare a casa? Dico, non vorranno tenermi lì come ostaggio, per esempio?
- Non siamo mica tedeschi, noi, da prendere degli ostaggi. Tutt’al più potranno prendervi gli scarponi, per ostaggio, ché siamo tutti mezzo scalzi.
L’uomo prese a brontolare come se gli scarponi fossero la cosa per cui temesse più che tutto, ma in fondo ci si rallegrava: ogni particolare della sua sorte, in bene o in male, serviva a ridargli un po’ di sicurezza.
- Sentite, - disse l’armato, - visto che ci tenete tanto, facciamo così: mettetevi i miei, di scarponi, fin tanto che siamo al comando, ché i miei sono tutti rotti e non ve li pigliano.
Io mi metto i vostri e quando vi accompagno indietro ve li rendo.
Ora anche un bambino avrebbe capito che era tutta una storia. L’uomo armato voleva i suoi
scarponi, ebbene, il disarmato gli avrebbe dato tutto quel che voleva, era un uomo che capiva, lui, era contento di cavarsela così
a buon mercato. «Io grande kamarad, - avrebbe detto al maresciallo. - Io dato loro scarpe e loro lasciato me andare». Il maresciallo forse gli avrebbe fatto avere un paio di stivaletti come i soldati tedeschi. - Allora voi non tenete nessuno: ostaggio, prigioniero? Nemmeno il segretario comunale e gli altri? - 
Il segretario aveva fatto prendere tre nostri compagni; i fratelli facevano i rastrellamenti con la milizia; la maestra andava a
letto con quelli della Decima. L’uomo disarmato si fermò. 
Disse: - Non credete mica che sia una spia anch’io. Non mi avete portato mica qui per ammazzarmi, - e scoprì un po’ i denti, come per sorridere.
- Se vi credessimo una spia, - disse l’armato, non starei tanto a far così -. Tolse la sicurezza
all’arma. - E così -. La puntò alla spalla, fece l’atto di sparargli addosso.
«Ecco - pensava la spia, - non spara». Ma l’altro non abbassava l’arma, schiacciava il grilletto, invece.
«A salve, a salve spara», fece in tempo a pensare la spia. E quando sentì i colpi sferrati addosso a lui come pugni di fuoco che non si fermavano più, riuscì ancora a pensare: «Crede d’avermi ucciso, invece vivo».
Cascò con la faccia al suolo e l’ultima cosa che vide fu un paio di piedi calzati coi suoi scarponi che lo scavalcavano. Così rimase, cadavere nel fondo del bosco, con la bocca piena d’aghi di pino. Due ore dopo era già nero di formiche.


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