«C’è che noi nella storia siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? Uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noia liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi»

(Italo Calvino-Il sentiero dei nidi di ragno)

domenica 11 maggio 2014

ULTIMO VIENE IL CORVO



Il racconto, scritto nel 1946, è tratto dalla raccolta omonima. In seguito è confluito nella sezione Gli idilli difficili di tutti i Racconti (1958)



[...] Dall’otturatore aperto usciva un buon odore di polvere.
Si fece dare altre cartucce. Erano in tanti ormai a guardarlo, dietro di lui in riva al fiumicello. Le pigne in cima agli alberi dell’altra riva perché si vedevano e non si potevano toccare? Perché quella distanza vuota tra lui e le cose? Perché le pigne che erano una cosa con lui, nei suoi occhi, erano invece là, distanti? Però se puntava il fucile la distanza vuota si capiva che era un trucco; lui toccava il grilletto e nello stesso momento la pigna cascava, troncata al picciolo. Era un senso di vuoto come una carezza: quel vuoto della canna del fucile che continuava attraverso l’aria e si riempiva con lo sparo, fin laggiù alla pigna, allo scoiattolo, alla pietra bianca al fiore di papavero. - Questo non ne sbaglia una, - dicevano gli uomini e nessuno aveva il coraggio di ridere.
- Tu vieni con noi, - disse il capo.
- E voi mi date il fucile, - rispose il ragazzo.
- Ben. Si sa.
Andò con loro.
Partì con un tascapane pieno di mele e due forme di cacio. Il paese era una macchia d’ardesia, paglia e sterco vaccino in fondo alla valle. Andare via era bello perché a ogni svolta si vedevano cose nuove, alberi con pigne, uccelli che volavano dai rami, licheni sulle pietre, tutte cose nel raggio delle distanze finte, delle distanze che lo sparo riempiva inghiottendo l’aria in mezzo.
Non si poteva sparare però, glielo dissero: erano posti da passarci in silenzio e le cartucce servivano per la guerra. Ma a un certo punto un leprotto spaventato dai passi traversò il sentiero in mezzo al loro urlare e armeggiare. Stava già per scomparire nei cespugli quando lo fermò una botta del ragazzo. - Buon colpo, - disse anche il capo, - però qui non siamo a caccia. Vedessi anche un fagiano non devi più sparare.
Non era passata un’ora che nella fila si sentirono altri spari. - É il ragazzo di nuovo! - s’infuriò il capo e andò a raggiungerlo. Lui rideva, con la sua faccia bianca e rossa, a mela. - Pernici, - disse, mostrandole. Se n’era alzato un volo da una siepe.
- Pernici o grilli, te l’avevo detto. Dammi il fucile. E se mi fai imbestialire ancora torni al paese.
Il ragazzo fece un po’ il broncio; a camminare disarmato non c’era gusto, ma finché era con loro poteva sperare di riavere il fucile.
La notte dormirono in una baita da pastori. Il ragazzo si svegliò appena il cielo schiariva, mentre gli altri dormivano. Prese il loro fucile più bello, riempì il tascapane di caricatori e uscì. C’era un’aria timida e tersa, da mattina presto. Poco discosto dal casolare c’era un gelso. Era l’ora in cui arrivavano le ghiandaie. Eccone una: sparò, corse a raccoglierla e la mise nel tascapane. Senza muoversi dal punto dove l’aveva raccolta cercò un altro bersaglio: un ghiro! Spaventato dallo sparo, correva a rintanarsi in cima ad un castagno. Morto era un grosso topo con la coda grigia che perdeva ciuffi di pelo a toccarla. Da sotto il castagno vide, in un prato più basso, un fungo, rosso coi punti bianchi, velenoso. Lo sbriciolò con una fucilata, poi andò a vedere se proprio l’aveva preso. Era un bel gioco andare così da un bersaglio all’altro: forse si poteva fare il giro del mondo. Vide una grossa lumaca su una pietra, mirò il guscio e raggiunto il luogo non vide che la pietra scheggiata, e un po’ di bava iridata. Così s’era allontanato dalla baita, giù per prati sconosciuti.
Dalla pietra vide una lucertola su un muro, dal muro una pozzanghera e una rana, dalla pozzanghera un cartello sulla strada, bersaglio facile. Dal cartello si vedeva la strada che faceva zig-zag e sotto: sotto c’erano degli uomini in divisa che avanzavano ad armi spianate. All’apparire del ragazzo col fucile che sorrideva con quella faccia bianca e rossa, a mela, gridarono e gli puntarono le armi addosso. Ma il ragazzo aveva già visto dei bottoni d’oro sul petto di uno di quelli e fatto fuoco mirando a un bottone.
Sentì l’urlo dell’uomo e gli spari a raffiche o isolati che gli fischiavano sopra la testa: era già steso a terra dietro un mucchio di pietrame sul ciglio della strada, in angolo morto. Poteva anche muoversi, perché il mucchio era lungo, far capolino da una parte inaspettata, vedere i lampi alla bocca delle armi dei soldati, il grigio e il lustro delle loro divise, tirare a un gallone, a una mostrina. Poi a terra e lesto a strisciare da un’altra parte a far fuoco. Dopo un po’ sentì raffiche alle sue spalle, ma che lo sopravanzavano e colpivano i soldati: erano i compagni che venivano di rinforzo coi mitragliatori. - Se il ragazzo non ci svegliava coi suoi spari, - dicevano.
Il ragazzo, coperto dal tiro dei compagni, poteva mirare meglio. Ad un tratto un proiettile gli sfiorò una guancia. Si voltò: un soldato aveva raggiunto la strada sopra di lui. Si buttò in una cunetta, al riparo, ma intanto aveva fatto fuoco e colpito non il soldato ma di striscio il fucile, alla cassa. Sentì che il soldato non riusciva a ricaricare il fucile, e lo buttava in terra. Allora il ragazzo sbucò e sparò sul soldato che se la dava a gambe: gli fece saltare una spallina.
L’inseguì. Il soldato ora spariva nel bosco ora riappariva a tiro. Gli bruciò il cocuzzolo dell’elmo, poi un passante della cintura. Intanto inseguendosi erano arrivati in una valletta sconosciuta, dove non si sentiva più il rumore della battaglia. A un certo punto il soldato non trovò più bosco davanti a sé, ma una radura, con intorno dirupi fitti di cespugli. Ma il ragazzo stava già per uscire dal bosco: in mezzo alla radura c’era una grossa pietra; il soldato fece appena in tempo a rimpiattarcisi dietro, rannicchiato con la testa tra i ginocchi.
Là per ora si sentiva al sicuro: aveva delle bombe a mano con sé e il ragazzo non poteva avvicinarglisi ma solo fargli la guardia a tiro di fucile, che non scappasse. Certo, se avesse potuto con un salto raggiungere i cespugli, sarebbe stato sicuro, scivolando per il pendio fitto. Ma c’era quel tratto nudo da traversare: fin quando sarebbe rimasto lì il ragazzo? E non avrebbe mai smesso di tenere l’arma puntata? Il soldato decise di fare una prova: mise l’elmo sulla punta della baionetta e gli fece far capolino fuori dalla pietra. Uno sparo, e l’elmo rotolò per terra, sforacchiato.
Il soldato non si perse d’animo; certo mirare lì intorno alla pietra era facile, ma se lui si muoveva rapidamente sarebbe stato impossibile prenderlo. In quella un uccello traversò il cielo veloce, forse un galletto di marzo. Uno sparo e cadde. Il soldato si asciugò il sudore dal collo. Passò un altro uccello, una tordella: cadde anche quello. Il soldato inghiottiva saliva. Doveva essere un posto di passo, quello: continuavano a volare uccelli, tutti diversi e quel ragazzo a sparare e farli cadere. Al soldato venne un’idea: «Se lui sta attento agli uccelli non sta attento a me. Appena tira io mi butto. Ma forse prima era meglio fare una prova. Raccattò l’elmo e lo tenne pronto in cima alla baionetta. Passarono due uccelli insieme, stavolta: beccaccini. Al soldato rincresceva sprecare un’occasione così bella per la prova, ma non si azzardava ancora. Il ragazzo tirò a un beccaccino, allora il soldato sporse l’elmo, sentì lo sparo e vide l’elmo saltare per aria. Ora il soldato sentiva un sapore di piombo in bocca; s’accorse appena che anche l’altro uccello cadeva a un nuovo sparo.
Pure non doveva fare gesti precipitosi: era sicuro dietro quel masso, con le sue bombe a mano. E perché non provava a raggiungere il ragazzo con una bomba, pur stando nascosto? Si sdraiò schiena a terra, allungò il braccio dietro a sé, badando a non scoprirsi, radunò le forze e lanciò la bomba. Un bel tiro; sarebbe andata lontano; però a metà della parabola una fucilata la fece esplodere in aria. Il soldato si buttò faccia a terra perché non gli arrivassero schegge.
Quando rialzò il capo era venuto il corvo. C’era nel cielo sopra di lui un uccello nero che volava a giri lenti, un corvo forse. Adesso certo il ragazzo gli avrebbe sparato. Ma lo sparo tardava a farsi sentire. Forse il corvo era troppo alto? Eppure ne aveva colpito di più alti e veloci. Alla fine una fucilata: adesso il corvo sarebbe caduto, no, continuava a girare lento, impassibile. Cadde una pigna, invece, da un pino lì vicino. Si metteva a tirare alle pigne, adesso? A una a una colpiva le pigne che cascavano con una botta secca.
A ogni sparo il soldato guardava il corvo: cadeva? No, l’uccello nero girava sempre più basso sopra di lui. Possibile che il ragazzo non lo vedesse? Forse il corvo non esisteva, era una sua allucinazione. Forse chi sta per morire vede passare tutti gli uccelli: quando vede il corvo vuol dire che è l’ora. Pure, bisognava avvertire il ragazzo che continuava a sparare alle pigne. Allora il soldato si alzò in piedi e indicando l’uccello nero col dito, - Là c’è il corvo! - gridò, nella sua lingua. Il proiettile lo prese giusto in mezzo a un’aquila ad ali spiegate che aveva ricamata sulla giubba.
Il corvo s’abbassava lentamente, a giri.


Nessun commento:

Posta un commento