Il
racconto,
scritto
nel 1946, è tratto dalla raccolta omonima. In seguito è confluito
nella sezione Gli idilli difficili di tutti i Racconti (1958)
[...] Dall’otturatore
aperto usciva un buon odore di polvere.
Si fece dare altre cartucce. Erano in tanti ormai a guardarlo,
dietro di lui in riva al fiumicello. Le pigne in cima agli alberi
dell’altra riva perché si vedevano e non si potevano toccare?
Perché quella distanza vuota tra lui e le cose? Perché le pigne che
erano una cosa con lui, nei suoi occhi, erano invece là, distanti?
Però se puntava il fucile la distanza vuota si capiva che era un
trucco; lui toccava il grilletto e nello stesso momento la pigna
cascava, troncata al picciolo. Era un senso di vuoto come una
carezza: quel vuoto della canna del fucile che continuava attraverso
l’aria e si riempiva con lo sparo, fin laggiù alla pigna, allo
scoiattolo, alla pietra bianca al fiore di papavero. - Questo non ne
sbaglia una, - dicevano gli uomini e nessuno aveva il coraggio di
ridere.
- Tu vieni con noi, - disse il capo.
- E voi mi date il fucile, - rispose il ragazzo.
- Ben. Si sa.
Andò con loro.
Partì con un tascapane pieno di mele e due forme di cacio. Il
paese era una macchia d’ardesia, paglia e sterco vaccino in fondo
alla valle. Andare via era bello perché a ogni svolta si vedevano
cose nuove, alberi con pigne, uccelli che volavano dai rami, licheni
sulle pietre, tutte cose nel raggio delle distanze finte, delle
distanze che lo sparo riempiva inghiottendo l’aria in mezzo.
Non si poteva sparare però, glielo dissero: erano posti da
passarci in silenzio e le cartucce servivano per la guerra. Ma a un
certo punto un leprotto spaventato dai passi traversò il sentiero in
mezzo al loro urlare e armeggiare. Stava già per scomparire nei
cespugli quando lo fermò una botta del ragazzo. - Buon colpo, -
disse anche il capo, - però qui non siamo a caccia. Vedessi anche un
fagiano non devi più sparare.
Non era passata un’ora che nella fila si sentirono altri spari.
- É il ragazzo di nuovo! - s’infuriò il capo e andò a
raggiungerlo. Lui rideva, con la sua faccia bianca e rossa, a mela. -
Pernici, - disse, mostrandole. Se n’era alzato un volo da una
siepe.
- Pernici o grilli, te l’avevo detto. Dammi il fucile. E se mi
fai imbestialire ancora torni al paese.
Il ragazzo fece un po’ il broncio; a camminare disarmato non
c’era gusto, ma finché era con loro poteva sperare di riavere il
fucile.
La notte dormirono in una baita da pastori. Il ragazzo si svegliò
appena il cielo schiariva, mentre gli altri dormivano. Prese il loro
fucile più bello, riempì il tascapane di caricatori e uscì. C’era
un’aria timida e tersa, da mattina presto. Poco discosto dal
casolare c’era un gelso. Era l’ora in cui arrivavano le
ghiandaie. Eccone una: sparò, corse a raccoglierla e la mise nel
tascapane. Senza muoversi dal punto dove l’aveva raccolta cercò un
altro bersaglio: un ghiro! Spaventato dallo sparo, correva a
rintanarsi in cima ad un castagno. Morto era un grosso topo con la
coda grigia che perdeva ciuffi di pelo a toccarla. Da sotto il
castagno vide, in un prato più basso, un fungo, rosso coi punti
bianchi, velenoso. Lo sbriciolò con una fucilata, poi andò a vedere
se proprio l’aveva preso. Era un bel gioco andare così da un
bersaglio all’altro: forse si poteva fare il giro del mondo. Vide
una grossa lumaca su una pietra, mirò il guscio e raggiunto il luogo
non vide che la pietra scheggiata, e un po’ di bava iridata. Così
s’era allontanato dalla baita, giù per prati sconosciuti.
Dalla pietra vide una lucertola su un muro, dal muro una
pozzanghera e una rana, dalla pozzanghera un cartello sulla strada,
bersaglio facile. Dal cartello si vedeva la strada che faceva zig-zag
e sotto: sotto c’erano degli uomini in divisa che avanzavano ad
armi spianate. All’apparire del ragazzo col fucile che sorrideva
con quella faccia bianca e rossa, a mela, gridarono e gli puntarono
le armi addosso. Ma il ragazzo aveva già visto dei bottoni d’oro
sul petto di uno di quelli e fatto fuoco mirando a un bottone.
Sentì l’urlo dell’uomo e gli spari a raffiche o isolati che
gli fischiavano sopra la testa: era già steso a terra dietro un
mucchio di pietrame sul ciglio della strada, in angolo morto. Poteva
anche muoversi, perché il mucchio era lungo, far capolino da una
parte inaspettata, vedere i lampi alla bocca delle armi dei soldati,
il grigio e il lustro delle loro divise, tirare a un gallone, a una
mostrina. Poi a terra e lesto a strisciare da un’altra parte a far
fuoco. Dopo un po’ sentì raffiche alle sue spalle, ma che lo
sopravanzavano e colpivano i soldati: erano i compagni che venivano
di rinforzo coi mitragliatori. - Se il ragazzo non ci svegliava coi
suoi spari, - dicevano.
Il ragazzo, coperto dal tiro dei compagni, poteva mirare meglio.
Ad un tratto un proiettile gli sfiorò una guancia. Si voltò: un
soldato aveva raggiunto la strada sopra di lui. Si buttò in una
cunetta, al riparo, ma intanto aveva fatto fuoco e colpito non il
soldato ma di striscio il fucile, alla cassa. Sentì che il soldato
non riusciva a ricaricare il fucile, e lo buttava in terra. Allora il
ragazzo sbucò e sparò sul soldato che se la dava a gambe: gli fece
saltare una spallina.
L’inseguì. Il soldato ora spariva nel bosco ora riappariva a
tiro. Gli bruciò il cocuzzolo dell’elmo, poi un passante della
cintura. Intanto inseguendosi erano arrivati in una valletta
sconosciuta, dove non si sentiva più il rumore della battaglia. A un
certo punto il soldato non trovò più bosco davanti a sé, ma una
radura, con intorno dirupi fitti di cespugli. Ma il ragazzo stava già
per uscire dal bosco: in mezzo alla radura c’era una grossa pietra;
il soldato fece appena in tempo a rimpiattarcisi dietro, rannicchiato
con la testa tra i ginocchi.
Là per ora si sentiva al sicuro: aveva delle bombe a mano con sé
e il ragazzo non poteva avvicinarglisi ma solo fargli la guardia a
tiro di fucile, che non scappasse. Certo, se avesse potuto con un
salto raggiungere i cespugli, sarebbe stato sicuro, scivolando per il
pendio fitto. Ma c’era quel tratto nudo da traversare: fin quando
sarebbe rimasto lì il ragazzo? E non avrebbe mai smesso di tenere
l’arma puntata? Il soldato decise di fare una prova: mise l’elmo
sulla punta della baionetta e gli fece far capolino fuori dalla
pietra. Uno sparo, e l’elmo rotolò per terra, sforacchiato.
Il soldato non si perse d’animo; certo mirare lì intorno alla
pietra era facile, ma se lui si muoveva rapidamente sarebbe stato
impossibile prenderlo. In quella un uccello traversò il cielo
veloce, forse un galletto di marzo. Uno sparo e cadde. Il soldato si
asciugò il sudore dal collo. Passò un altro uccello, una tordella:
cadde anche quello. Il soldato inghiottiva saliva. Doveva essere un
posto di passo, quello: continuavano a volare uccelli, tutti diversi
e quel ragazzo a sparare e farli cadere. Al soldato venne un’idea:
«Se lui sta attento agli uccelli non sta attento a me. Appena tira
io mi butto. Ma forse prima era meglio fare una prova. Raccattò
l’elmo e lo tenne pronto in cima alla baionetta. Passarono due
uccelli insieme, stavolta: beccaccini. Al soldato rincresceva
sprecare un’occasione così bella per la prova, ma non si azzardava
ancora. Il ragazzo tirò a un beccaccino, allora il soldato sporse
l’elmo, sentì lo sparo e vide l’elmo saltare per aria. Ora il
soldato sentiva un sapore di piombo in bocca; s’accorse appena che
anche l’altro uccello cadeva a un nuovo sparo.
Pure non doveva fare gesti precipitosi: era sicuro dietro quel
masso, con le sue bombe a mano. E perché non provava a raggiungere
il ragazzo con una bomba, pur stando nascosto? Si sdraiò schiena a
terra, allungò il braccio dietro a sé, badando a non scoprirsi,
radunò le forze e lanciò la bomba. Un bel tiro; sarebbe andata
lontano; però a metà della parabola una fucilata la fece esplodere
in aria. Il soldato si buttò faccia a terra perché non gli
arrivassero schegge.
Quando rialzò il capo
era venuto il corvo. C’era nel cielo sopra di lui un uccello nero
che volava a giri lenti, un corvo forse. Adesso certo il ragazzo gli
avrebbe sparato. Ma lo sparo tardava a farsi sentire. Forse il corvo
era troppo
alto? Eppure ne aveva colpito di più alti e veloci. Alla fine una
fucilata: adesso il corvo sarebbe caduto, no, continuava a girare
lento, impassibile. Cadde una pigna, invece, da un pino lì vicino.
Si metteva a tirare alle pigne, adesso? A una a una colpiva le pigne
che cascavano con una botta secca.
A ogni sparo il soldato guardava il corvo: cadeva? No, l’uccello
nero girava sempre più basso sopra di lui. Possibile che il ragazzo
non lo vedesse? Forse il corvo non esisteva, era una sua
allucinazione. Forse chi sta per morire vede passare tutti gli
uccelli: quando vede il corvo vuol dire che è l’ora. Pure,
bisognava avvertire il ragazzo che continuava a sparare alle pigne.
Allora il soldato si alzò in piedi e indicando l’uccello nero col
dito, - Là c’è il corvo! - gridò, nella sua lingua. Il
proiettile lo prese giusto in mezzo a un’aquila ad ali spiegate che
aveva ricamata sulla giubba.
Il corvo s’abbassava lentamente, a giri.
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